No a nuovi Ghetti

No a nuovi Ghetti

Di Luca Bertola, operatore dell’unità mobile di strada “Il Pulmino”

 

Articolo pubblicato dal Secolo XIX per la Rubrica “Punti di vista” di giovedì 13 dicembre 2o18

 

E’ ormai passato un anno e mezzo da quando Paoletta se ne è andata e, se esiste il Paradiso, lei oggi vi avrà trovato finalmente una dimora stabile. Certo, nel mio immaginario, per ascendere all’aldilà avrà probabilmente fregato le chiavi a San Pietro o, sul cancello, avrà disorientato tutti gli angeli con la sua profonda quanto extra-ordinaria visione spirituale. Così mi piace pensarla: in modo un po’ eretico e provocatorio, se vogliamo caricaturale, con il sorriso sulle labbra. Come era lei.

Quella di Paola non è una storia a lieto fine, almeno non nel senso comune.

Io proverò a raccontarvene un pezzo piccolo, senza la pretesa di racchiudere tutta la sua esistenza, complessa come quella di ognuno e, soprattutto, con un prima ed un dopo “la strada”.

La mia relazione con Paola è iniziata quasi una decina di anni fa, finisce nell’aprile dello scorso anno quando lei muore di cirrosi epatica. In mezzo vi è una strada percorsa assieme, in salita, al passo di una tartaruga.

Quando il “Pulmino” – l’unità di strada di San Marcellino – ha incontrato Paola, lei dormiva sotto i portici della chiesa di Santa Maria dei Servi, vestita “a cipolla” e, circondata da cartoni di pessimo vino bianco, era lo stereotipo del “barbone”. Soprattutto Paola era sola.

Ci sono voluti alcuni anni, molti incontri, affinché Paoletta decidesse, gradualmente, fidandosi, di abbandonare dieci anni di vita in strada per iniziare un percorso che la facesse riemergere dall’isolamento, ma alla fine, quando se ne è andata, Paola non era più sola ed aveva un tetto sulla testa.

Nel guardare a quel periodo sembra sia passato un secolo e non si può non notare come nell’attuale clima sociale e politico espressioni come “progettualità intorno alla persona e con la persona” paiono sempre più desuete, forse anche rifiutate. Lontano dagli occhi lontano dal cuore, questa è la parola d’ordine. Le persone senza dimora sono divenute un “problema” non da affrontare ma da nascondere: la sofferenza umana infastidisce e deturpa la vetrina di una città che vuol apparire bella per i turisti e per il commercio.

“Tu non puoi stare qua” è quanto ogni giorno si sentono ormai dire molte persone che vivono sulla strada. E così senza nemmeno accorgersene si sta passando da un’ottica progettuale, rispettosa dei tempi delle persone – e che spesso porta a risultati tangibili – all’idea che basti fornire prescrizioni e strutture, un altrove, in cui concentrare e nascondere il disagio sociale.

L’alienazione di molte persone senza dimora è lo specchio, estremizzato, dell’alienazione di noi tutti, e non sarà né inseguendo politiche d’urgenza né costruendo ghetti che riusciremo ad affrontare la solitudine – ben più e ben prima della povertà – che attanaglia così tante persone.

 

Articolo pubblicato dal Secolo XIX per la Rubrica Punti di vista di giovedì 14 dicembre 2o18



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