A muso duro col sorriso

A muso duro col sorriso

Il 27 gennaio scorso, in occasione della Giornata della Memoria, San Marcellino ha proposto un insieme di preoccupazioni e spunti di riflessione dal titolo Per non perdere noi stessi, sui quali oggi torniamo ad approfondire il tema della comprensione della complessità.

Comprendere la complessità andando oltre le generalizzazioni, attraverso l’informazione, l’attenzione e l’empatia.

 

Di Mario Paolini

 

Certo non deve essere bello vedere qualcuno che rovista nel cassonetto dell’immondizia, specie se non lo fa per migliorare la raccolta differenziata. Probabilmente puzza uno così. Lo guardo e vedo dei segni che lo rendono evidentemente diverso da me, deviante dallo standard di normalità che richiede, in primis un certo decoro.

Prima di giudicare meglio chiedersi se ha fame, e se è così ho due alternative: o migliorare la raccolta differenziata in modo tale che le persone così non perdano tempo a rovistare a casaccio nei cassonetti oppure cominciare a fermare questo scandalo per gli occhi.

Dove li mettiamo? All’inizio del ‘900 la fame e la miseria erano la norma, al punto che nei comuni era d’uso prestampare il Certificato di Miserabilità, rilasciato dal Sindaco per gli usi comuni consentiti dalla Legge (evidentemente non si usava l’autocertificazione). Ho trovato spesso questo certificato nelle cartelle cliniche di persone ricoverate al manicomio, perché è lì che finiva chi dava di matto o dava un po’ nell’occhio con comportamenti non come si deve.

Miseria, ordine, decoro, malattia, parole che messe in fila diventano ancora oggi per qualcuno elementi di anamnesi, diagnosi: verso quale prognosi? Forse riaprire i manicomi? Al limite cambiandogli nome perché fa brutto dirlo, e poi non sono mica matti.

Su questo basta mettersi d’accordo, una volta, accanto al certificato di miserabilità, il Sindaco aveva pronto un altro modulo: Atto di notorietà da prodursi al Pretore pel ricovero di alienati al manicomio e se tre brave persone conosciute come probe e degne di fede si recavano dal sindaco … i quali mi hanno concordemente dichiarato di essere a loro perfetta conoscenza i fatti e le circostanze che fanno ritenere lo stato di alienazione mentale di … ed era fatta, il cancello si apriva. Non si pensi che poi ci si limitasse a girare la chiave, le procedure erano rigorose per non sbagliare. Infatti … sono ammessi al manicomio solo i mentecatti che riescano di pericolo a sé o agli altri, o turbano l’ordine pubblico od offendono con scandalo il buon costume. Così era scritto nel Modulo informativo per l’ammissione degli alienati. Ecco, finalmente ristabiliti, ordine, cura, decoro. Finalmente una città pulita senza più gente strana. A volte il medico alla fine del documento di accettazione dopo aver esaminato la persona e la sua storia così scriveva nelle prescrizioni di cura: dieta adeguata, tutto qua.

Luogo per sanare e curare

Così era scritto nel cartello davanti all’Ospedale Psichiatrico di Kaufbeuren, da cui inizia il racconto di Ausmerzen. Manca il soggetto: sanare e curare chi? Quando nella seconda metà dell’800 si aprono i grandi manicomi moderni le planimetrie sono spesso sovrapponibili. Grandi aree, circondate da un inequivocabile muro che separa e distingue il fuori dal dentro, sani e malati, noi e loro.

News San Marcellino Genova

(cartolina degli anni ’20 raffigurante l’ospedale psichiatrico S. Artemio di Treviso)

Aree e padiglioni che rispondono a un bisogno sociale e allo stesso tempo offrono una risposta che prima non c’era. Il bisogno sociale è quello del controllo e della custodia organizzata di tutta una galassia di esseri con caratteristiche non compatibili con lo stare fuori; per cui è meglio metterli dentro, metterli via. Non sono solo i matti, quelli che immaginiamo tali forse senza averne conosciuto alcuno, ma finivano in quei luoghi altrove anche tutti quelli che avevano pezzi riusciti male, più o meno evidenti, nel corpo e nella mente. Per un lungo tempo, non ancora appartenente in modo definitivo al passato, questi luoghi di custodia separata, e non entro ancora in merito a come si vive in quei luoghi, sono serviti a proteggere chi è fuori dalla vista prima ancora che dal contatto con questi esseri diversi. (Mario Paolini, “Luogo per sanare e curare”, in Ausmerzen, di Marco Paolini, Einaudi, Milano 2012)

Pochissimi anni dopo, la crisi economica che seguì la prima guerra mondiale facilitò il cambiare nome a tutti i diversi: in Germania diventarono Nutzlose Esser, mangiatori inutili. La Germania nazista attuò lo sterminio sistematico dei diversi e lo fece senza grandi fatiche soffiando su pensieri razzisti e ignoranti che sempre sono presenti. Ignoranza e paura insieme sono come combustibile e comburente, basta una piccola scintilla.

Meglio prevenire l’incendio, serve conoscere per alimentare la cultura dell’inclusione.

Soldi di tutti, soldi dei sani a favore dei malati, dei deboli. Finché regge l’economia è relativamente facile ma con la crisi le cose cambiano, antiche saggezze popolari mal represse ritornano ad affacciarsi e basta poco per creare consenso attorno a pensieri razzisti: noi contro di loro, loro che ci rubano il pane, loro che non fanno niente, loro che per mantenerli dobbiamo rinunciare ai nostri diritti. (ibidem)

News San Marcellino GenovaManifesti come questi comparivano nelle strade tedesche offrendo al cittadino affamato la complicità di un potere che cerca consensi attorno al proprio disegno assassino; […] in altri tempi avrebbero suscitato proteste ma in quelle circostanze ottengono il risultato. (ibidem) Se ne parla, ci si pensa. È sufficiente. È sempre stato sufficiente gracchiare slogan razzisti per trovare consenso; È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. (Manifesto degli scienziati razzisti pubblicato su “Il Giornale d’Italia” il 14 luglio 1938) (ibidem)News San Marcellino Genova

Ma come si costruisce un pensiero condiviso, anche quelli peggiori, striscianti?

Carlo Lepri ha ben descritto il modello sociale che si basa sulle rappresentazioni mentali dell’altro che definiscono degli atteggiamenti, dei comportamenti, ciò contribuisce a consolidare una cultura accettata se non ancora condivisa. Non ci sono corsi di specializzazione da seguire, basta poco.

News San Marcellino GenovaL’imprinting è un apprendimento ma non serve studiare: il pulcino decide che è mamma la prima cosa che si muove davanti a sé non appena esce dal guscio. Ognuno di noi decide che una cosa è giusta o sbagliata in base a quel che vede fare da qualcuno di cui si fida. Cambiare idea è un processo molto più lento e complesso. La ragione contro il cervello antico, il pensiero contro l’agire istintivo: resta un duello in cui è difficile sapere in anticipo chi vince. (ibidem)

Quanti sono i bambini con un mitra in mano? Esiste una immagine capace più di questa di descrivere la mostruosa deriva che può sortire da qualcosa che comincia e si fonda sulla fiducia?

Konrad Lorenz, quel vecchio dalla barba bianca che subito associamo all’etologia e allo studio dell’imprinting, fu in gioventù un nazista convinto e divenne tale perché era un eugenista convinto: “[…] dovere dell’igiene razziale dev’essere quello di occuparsi con sollecitudine di una eliminazione degli esseri umani moralmente inferiori più severe di quanto sia praticata oggi. Noi dovremmo letteralmente sostituire tutti i fattori che determinano la selezione in una vita naturale e libera. Nei tempi preistorici dell’umanità la selezione delle qualità della resistenza, dell’eroismo, dell’utilità sociale ecc. fu praticata esclusivamente da fattori sociali esterni. Questo ruolo deve essere oggi assunto da un’organizzazione sociale; in caso contrario l’umanità, per mancanza di fattori selettivi, sarà annientata dai fenomeni degenerativi. (LORENZ, 1940) (ibidem)

Sono sue queste orrende parole, furono scritte nel 1940, in pieno sterminio dei disabili e dei malati di mente nell’ambito dell’operazione T4.

Orientarsi

Quale può essere la relazione tra i meccanismi dell’imprinting e quelli che contribuiscono a determinare un atteggiamento di accettazione, integrazione, inclusione oppure di rifiuto, esclusione, violenza?

L’inclusione è un processo delicato e complesso da costruire e ri-costruire ogni giorno che si realizza non solo attraverso le cose che vengono fatte, ma anche dalle reazioni degli altri, delle persone che appartengono all’ambiente e risentono degli effetti di ciò che si fa. L’esclusione è un processo più rozzo e a volte affatto delicato: ma i principi sono gli stessi.

Ci troviamo di fronte a comportamenti agiti certamente in base alle conoscenze, al piano cognitivo, ma anche a ciò che ciascuno pensa sia giusto fare in base ai propri pensieri, al piano emozionale. È relativamente facile parlare di inclusione come di un mondo dove c’è spazio per le differenze, ma si deve comprendere che costruirlo, questo mondo, e poi manu-tenerlo, proprio facile non è; bisogna incontrare lo sguardo, le parole e i silenzi di chi vive quella condizione e affrontarle. Ma, prima ancora, bisogna incontrare e sostenere in modo retto lo sguardo con sé stesso, fare spazio in sé per accogliere le differenze, che siano il colore della pelle o mille altre condizioni. Se è sempre necessario farlo per potersi incamminare in questo percorso, oggi è condizione urgente, non rinviabile, davanti ai nuovi fascismi, alimentati dall’indifferenza e da crescenti intolleranze.

Cultura inclusiva è cultura dell’incontro, dell’ascolto, del cercare gli altri, tutti, e come untori del Manzoni contaminare l’ambiente. Il corretto posizionamento di chi, per sorte o per lavoro, sta accanto a persone fragili, non dipende da istinti innati, ma da cultura alimentata da conoscenza; un corretto posizionamento contribuisce a costruire cultura inclusiva mediante ciò che si fa e si dice, così come ogni errore contribuisce ad alimentare paure, esclusioni, disuguaglianze. Forse è sbagliato il termine “contaminare” perché ha un’accezione negativa, forse dovrei rifarmi a un’immagine più positiva e immaginare che “noi” siamo quelli che dovrebbero de-contaminare un ambiente pieno di tossine. Forse; basta mettersi d’accordo sul fatto che ciò che sto dicendo ha come obiettivo il coinvolgimento di tutti e non la specializzazione dei compiti.

Si deve ricominciare a parlare, a parlarsi. Non importa con chi, il fatto è che non si parla punto e basta, manca il confronto. Io credo che il bisogno prevalente non sia tanto di comprendere e di rimboccarsi le maniche per trovare una soluzione, quanto che ci sia qualcun-altro che risolva il problema, in modo da poter ritornare indisturbati alla propria solitudine, così ben rappresentata da una pubblicità di un gestore telefonico che promette la libertà di non dover scegliere.

Penso si debba ripartire da qui. Lo sforzo di farsi capire deve partire però dagli operatori stessi, siamo noi, questo mondo, che ha bisogno che la gente conosca, capisca, difenda la cultura dell’inclusione, e per fare ciò è necessario aprire le porte, coinvolgere il territorio, chiedersi che cosa i servizi alle persone deboli possono offrire al territorio, cosa le storie personali di persone fragili possono raccontare a chi per sorte o per scelta non ne vuole sentir parlare. Bisogna provarci, con la consapevolezza che la cultura inclusiva è cultura di minoranza, ma non per questo rinunciataria; e bisogna aumentare spazi di incontro perché c’è il rischio che da una parte restino le paure, dall’altra ci si senta svalorizzati e poi niente cambi.

Ci sono persone che si rimboccano le maniche tutti i giorni quando serve, che hanno voglia di guardarsi intorno con i propri occhi e fare, non si sognano di lasciare il proprio nome perché son lì per fare e non per apparire. Don Milani scrisse parlando di Barbiana sui nostri muri c’è scritto “I Care”, il contrario del motto fascista “me ne frego”.

A questa gente dedico con affetto ciò che ho scritto, con l’augurio di esser capace di farne sempre parte, perché alle volte per recuperare la voglia basta guardarsi intorno e ri-provare l’incontro: come diceva Pierangelo Bertoli, a muso duro e col sorriso.

 

Comprendere la complessità è la terza di un ciclo di riflessioni che proseguiranno nelle prossime settimane. Eccone il filo conduttore.

 

Portare argomenti, affrontando temi sociali e pubblici riconoscendo la parzialità delle nostre motivazioni, opinioni o percezioni personali.

Contrastare la nostra ignoranza, concedendoci il tempo di conoscere e far conoscere i temi che ci stanno a cuore.

Prestare attenzione ai contenuti, riconoscendo le forme di mistificazione che possono nascondersi dietro una efficace abilità di comunicazione.

Comprendere la complessità andando oltre le generalizzazioni, attraverso l’informazione, l’attenzione e l’empatia.

Non confondere la filantropia con il riconoscimento dei diritti, tenendo ben distinto il sentimento di solidarietà dagli strumenti necessari a ottemperare ai Principi costituzionali.

Non tirare nel mucchio. A partire dai discorsi e dai facili bersagli che affollano ogni canale di comunicazione, siamo chiamati a contrastare una tendenza culturale che oggi rappresenta il terreno sempre più fertile per forme di violenza che vanno ben al di là delle parole.



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